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IL MEDICO CURA NON CUSTODISCE

IL MEDICO CURA NON CUSTODISCE.

La morte di Barbara Capovani è la drammatica conseguenza di una riforma monca che ha chiuso gli ospedali psichiatrici giudiziari senza vere alternative. Sappiamo quanta responsabilità ci venga attribuita nel momento in cui siamo chiamati a rispondere a quesiti che attendono alla giustizia… La Segretaria Regionale Ester Pasetti su RipartireItalia.it

L’aggressione che ha determinato la morte di Barbara Capovani, responsabile del reparto di Psichiatria (SPDC) dell’ospedale di Pisa, nella sua brutale spietatezza, costringerà probabilmente il mondo scientifico a interrogarsi sulla drammatica deriva di cui la psichiatria è vittima incolpevole negli ultimi anni. La legge 180/78, assorbita nella 833/78 riformava la psichiatria consentendo il superamento del paradigma manicomiale: una legge di civiltà che ha riconsegnato la dignità a tutte le persone affette da malattie mentali.

Ogni quale sia l’eziologia del fenomeno, le malattie mentali sono espressione di un mutato funzionamento d’organo, il cervello. Mi piace ribadire questo semplice concetto per evitare che ancora oggi possa esserci spazio per teorie antipsichiatriche, volte a sottrarre queste patologie dall’alveo della medicina. Anche un intervento psicologico porta a modifiche del cervello, siamo in grado di documentarlo. Accetteremo l’antipsichiatria solo quando si accetteranno l’anticardiologia e l’antiortopedia. Ora i tempi sono diversi ed una legge nata per superare il manicomio, fatica ad adattarsi alla nuova utenza ed alle nuove possibilità e necessità di cura. La complessità aumenta, le reti sociali, lavorative, amicali vacillano.

Le gravi patologie, che nel passato portavano le persone a vivere ai margini della società, hanno trovato buone risposte nei trattamenti farmacologico e psicoterapico e molti di coloro che ne sono affetti conducono un’esistenza produttiva, fuori dall’ospedale. Avanza purtroppo il disagio forte e pervasivo dei disturbi della personalità, molti dei quali connotati da importanti anomalie della condotta, impulsività con facilità del passaggio all’atto, uso ed abuso costante di sostanze stupefacenti ed alcol. Si tratta di condizioni per le quali il ricovero ospedaliero dovrebbe avvenire per tempi brevi, pena il peggioramento delle condizioni con cronicizzazione del disturbo in quanto il lavoro è prevalentemente psicoterapico e riabilitativo.

I farmaci hanno un impatto limitato sul decorso, ma spesso mitigano alcuni aspetti. Tra i disturbi della personalità il peggiore ed il meno affrontabile con la terapia è il disturbo antisociale e la presenza anche solo di tratti di questa personalità, peggiorano la prognosi e determinano i comportamenti peggiori anche dal punto di vista della commissione di reati. Negli anni sta passando purtroppo sempre più spesso il concetto disturbo della personalità = incapacità a determinarsi nelle azioni e nelle scelte. Nulla di più falso nella maggior parte dei casi.

La legge 81/2014 ha portato alla chiusura degli OPG (ospedali psichiatrici giudiziari), consegnando interamente alla sanità la gestione degli autori di reato affetti da patologia psichiatrica, sia questa una malattia o un disturbo della personalità.
Una legge che a distanza di quasi dieci anni appare monca nella sua realizzazione non avendo raggiunto nemmeno l’obiettivo di minima di una REMS (Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza) per regione. Poche, con posti letto contingentati (non più di 20) e personale non sempre sufficiente. Poco meno di un miraggio. La prima drammatica conseguenza è che gli autori di reato affetti da patologia psichiatrica, se condannati alla REMS possono attendere mesi od anni prima di essere collocati. Qualcuno non ci arriva mai.

Nel frattempo, in assenza di alternative e non potendo essere avviti al carcere, possono essere posti (a discrezione del Magistrato): in SPDC (reparto per la gestione degli stati acuti e dotato per legge di un numero limitato di posti letto); in comunità riabilitative non deputate alla gestione di autori di reato; a casa propria in trattamento ambulatoriale; in comunità private che si sono negli anni specializzate nella gestione di questa tipologia di utenza. Un aspetto importante è rappresentato dal fatto che tranne per l’ingresso in REMS, nulla di fatto obbliga l’autore di reato ad attenersi alle prescrizioni del Magistrato e del curante e nulla lo obbliga ad accettare l’invio in comunità. Al pari nulla vieta le comunità private ad accettare queste persone. Tutto legittimo, ma oggettivamente scarsamente performante e forse ingiusto.

Chi come Barbara Capovani e come me, ha conosciuto la realtà del lavoro quotidiano in SPDC, sa bene quale sia il livello di disagio portato da queste persone sull’utenza ricoverata in ospedale e quale quota di aggressività siano spesso portate ad agire, soprattutto se affetti da un disturbo della personalità, ovvero non portatori di una malattia passibile di miglioramento netto con trattamento farmacologico. E sono purtroppo la maggioranza. Sappiamo inoltre quanta responsabilità ci venga attribuita nel momento in cui, quasi quotidianamente siamo chiamati a rispondere a quesiti che attendono alla giustizia e non alla scienza medica, costretti a vicariare un buco istituzionale.

Negli ultimi anni questo fenomeno ha preso il sopravvento così come il sopravvento lo ha preso la quota di disagio presente nella popolazione generale, la tendenza all’impulsività estrema, l’uso smodato di alcol e sostanze stupefacenti i cui danni all’encefalo nella sua fase evolutiva (di fatto fino ai 25 anni) sono noti e ben documentati da anni. Sempre più spesso il nostro lavoro ci riconduce a ciò che la 180/78 aveva superato: la scienza medica e quindi anche la psichiatria non può e non deve occuparsi di controllo della pericolosità sociale. Il medico cura non custodisce. Non possiamo essere responsabili del comportamento di chi, scientemente e non violando leggi dello stato, sceglie di non curarsi ed anzi di peggiorare la propria condizione ricorrendo a sostanze stupefacenti.

Il mondo sta cambiando e la violenza è in aumento. Paradossalmente le armi oggi sono più spuntate di un tempo. Occorre ridefinire ambiti di intervento e responsabilità. Barbara Capovani è morta invano per mano di chi avrebbe dovuto forse trovarsi altrove, ma questo lo stabilirà la verità giudiziale. Adoperiamoci affinché questo ennesimo segnale di pericolo sia colto nella sua interezza. Accantoniamo le ideologie e riportiamo ogni necessaria riflessione nell’alveo della scienza medica e giuridica. Dovremo riflettere laicamente, quanto queste armi spuntate ci possano aiutare a rispondere ai bisogni attuali di cura, alle aspettative delle famiglie di chi soffre di tali disturbi ed è spesso fuori controllo.

La cronaca, che oggi ci porta a parlare di una collega, ci offre ormai ogni giorno episodi drammatici, frutto di questa instabilità ed immaturità caratteriale. Cosa fare e chi chiamare in gioco? Non tutto è guaribile, ma non è un problema. In psichiatria come in ogni altra disciplina, spesso cronicizzare risolve molti aspetti di una malattia. Occorre però anche la consapevolezza che non tutto è curabile, non tutto è pertinenza sanitaria. Senza assumere posizioni difensive o giustizialiste, consapevoli del fatto che non possiamo immaginare un mondo scevro di pericoli, che il nostro è un lavoro pericoloso, ma che una buona organizzazione ed un buon sistema legislativo devono poter determinare una netta riduzione del rischio. Sempre e comunque.

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